UN NUOVO MOTIVO PER VISITARE A FIRENZE CASA BUONARROTI
La nuova sala e il nuovo allestimento che accoglie le restaurate opere del giovane Michelangelo.
Oggetto di interventi di restauro negli anni novanta del Novecento, condotti da Agnese Parronchi (Battaglia dei centauri nel 1992 e nel 1999, e Madonna della Scala nel 1997), le due sculture giovanili di Michelangelo, necessitavano, a tanti anni di distanza, di una revisione conservativa e di un leggero restauro che le restituisse all’ammirazione del pubblico nelle migliori condizioni possibili. Questo è stato possibile grazie alla consueta e generosa disponibilità della Fondazione Friends of Florence.
Per chi non avesse mai visitato Casa Buonarroti vale la pena di raccontare la storia di questa casa-museo dedicata a Michelangelo e a suoi discendenti, che qui vissero abbellendo la dimora che si trova in via Ghibellina 70, all'angolo appunto con via Buonarroti.
Michelangelo non era nato qui, ma a Caprese in provincia di Arezzo (ora Caprese Michelangelo), dove suo padre Ludovico di Leonardo, seppur fiorentino, si era trasferito per ricoprire una carica pubblica.
Che Michelangelo risiedesse in Casa Buonarroti lo testimoniano i documenti con cui dava a pigione le casette accessorie e, nel 1525, una delle due case principali del complesso; inoltre, nella dichiarazione legata all'istituzione della decima granducale, nel 1534, Michelangelo denunciò, tra l'altro, "una casa posta in via Ghibellina, [... che] è per lo mio abitare".
Nel 1539 l'edificio principale non venne più dato in pigione, fu adibito ad una migliore sistemazione dei suoi parenti, in particolare del nipote Leonardo, figlio di suo fratello minore Buonarroto, verso cui l'artista nutriva tutte le speranze di prosecuzione della stirpe. Interessandosi al suo matrimonio con una donna del patriziato cittadino, Michelangelo suggerì prima di trovarsi una dimora più "onorevole", poi accettò di far usare i denari che egli metteva a disposizione del nipote per ristrutturare le case già in possesso.
Alla morte del nipote Leonardo nel 1599, le proprietà su quel tratto di via Ghibellina erano state ulteriormente accresciute e doveva esser avviata la trasformazione degli edifici in un unico palazzo: la morte dell'artista aveva infatti portato alla famiglia un'eredità molto cospicua. I figli di Leonardo, Buonarroto il maggiore e Michelangelo il minore, si spartirono dunque i possedimenti: al primo andò la costruzione "nuova", all'altro la vecchia abitazione familiare che non era stata interessata dalla recente ristrutturazione, e che fu presto ingrandita con l'acquisto di un ulteriore fondo adiacente. Dal 1612 Michelangelo il Giovane iniziò l'edificazione del palazzo come si vede oggi, del quale resta una rara, precisa e particolareggiata documentazione d'archivio[
Il Giovane utilizzò un progetto che comprendeva due disegni dello stesso Michelangelo e nella decorazione interna fece celebrare ampiamente il famoso prozio con un preciso programma decorativo.
Michelangelo il Giovane morì senza figli ne 1647 e tutta l'eredità familiare passò al minore dei nipoti Leonardo, figlio di Buonarroto, e sopravvissuto al fratello maggiore Sigismondo. Leonardo, che ebbe una venerazione assoluta sia per il Michelangelo "vecchio", che per l'opera dello zio "Giovane", alla sua morte avvenuta nel 1684 aveva redatto un testamento particolarmente esplicito riguardo al mantenimento integro della galleria, delle sale monumentali e delle collezioni artistiche e librarie della famiglia, istituendo clausole particolarmente coercitive, che riguardavano la perdita dei diritti di primogenitura e delle altre rendite familiari in caso di cambio di destinazione delle sale, alienazione, dispersione, concessione a pigione e qualsiasi altra modifica non migliorativa.
Suo figlio Michelangelo "il Terzo", autore di una preziosa descrizione-inventario di tutti i beni familiari, morì nel 1697 senza figli. I tre fratelli superstiti stabilirono di assegnare al solo Filippo la cura del palazzo: senatore, auditore, presidente in perpetuo dell’Accademia della Crusca di Cortona Filippo fece della casa familiare un rinomato centro della cultura cittadina, arricchito dalle sue cospicue raccolte archeologiche. Con la morte dei suoi fratelli, senza discendenza, ricompose tutte le proprietà attigue in un unico complesso, che trasmise all'unico figlio maschio Leonardo, il quale a sua volta ebbe quattro figli. Alla morte di Leonardo nel 1799 causa di vicissitudini la casa fu abbandonata e data in momentanea cura all’ospedale di Santa Maria Nuova che redasse un prezioso inventario.
Nel 1801 i Buonarroti rientrarono in possesso del palazzo, in particolare del ramo di Filippo e poi di suo figlio Cosimo, che curò un rinnovamento tra il 1820 e il 1823, quando andarono purtroppo perduti lo scalone e la loggetta del primo piano sul cortile. Dai resoconti dell'epoca si viene a sapere che i venti anni di esproprio e abbandono della casa erano stati disastrosi: a eccezione della Galleria e delle sale monumentali, le altre stanze erano in forte degrado, e che solo coi restauri si restituì una dignità all'abitazione, che tornò ad essere abitata da Cosimo e sua moglie, Rosina Vendramin.
Fu proprio Cosimo a istituire, nel 1858 esaudendo probabilmente anche la volontà della moglie scomparsa nel 1856, un Ente Morale che si prendesse cura dell'edificio e delle raccolte d'arte in esso contenute (dei fatti documenta una memoria già posta sul fronte del palazzo e oggi all'interno), ponendo le basi di quell'attivo Museo di Casa Buonarroti che ancora oggi gestisce, come Fondazione, la proprietà.
L'edificio fu oggetto di un parziale e comunque importante restauro nel 1950. Riaperta al pubblico la casa il 26 maggio 1951 si dovette attendere la concomitanza con il quarto centenario della morte dell'artista 1964, per vedere l'edificio interessato da un più radicale intervento promosso dal Ministero dei Lavori Pubblici, con lavori di adattamento interno per il museo e per la fondazione che portarono (nonostante i progetti elaborati nei decenni precedenti per arricchire il fronte reputato troppo semplice in relazione alla ricchezza degli interni) ad esaltare l'essenzialità del prospetto. Negli interni, oramai del tutto liberati da inquilini, fu tra l'altro, in questa occasione, recuperata la cinquecentesca sala d'ingresso (fino a quel momento suddivisa da tramezzi e corridoi) e, all'ultimo piano, una bella loggia già tamponata.
Con l’alluvione del 1966 la struttura subì purtroppo ingenti danni, rendendo necessari ulteriori interventi prontamente effettuati entro l'ottobre dell'anno successivo che interessarono sia i prospetti esterni sia gli spazi interni terreni.
Ma a parte la storia della Casa Buonarroti sono in particolare i numerosi e pregevoli contenuti che rendono la visita estremamente interessante:
- la più ricca collezione al mondo di bozzetti di Michelangelo e della sua scuola. Il pezzo più importante è il Torso del fiume, a grandezza naturale e destinato a fare da modello per una statua mai realizzata per la Sacretis Nuova, ma sono suggestivi anche i due Lottatori e il Nudo femminile;
- La Madonna della scala:
- La Battaglia dei Centauri;
- numerosi disegni;
- l’allegoria dell’Inclinazione di Artemisia Gentileschi che fu il pernio promotore della mostra*Artemisia” del 1991 organizzata e sponsorizzata da Banca Toscana e che portò nel piccolo museo oltre 20 mila presenze.
Ma parliamo ora di queste due opere che hanno trovato il loro giusto all’allestimento in una sala apposita della Casa Buonarroti.
La Madonna della scala è stata scolpita da Michelangelo quando aveva appena quindici anni ed è una delle prime prove del suo apprendistato svolto nel Giardino di San Marco, messo a disposizione dei giovani artisti da Lorenzo il Magnifico, sotto la guida di Donatello prima (muore nel 1491) e di Bertoldo di Giovanni poi,
Se dal grande maestro del Quattrocento deriva la particolare tecnica a bassorilievo dello “stiacciato”, michelangiolesca è invece la scala monumentale della composizione dominata dalla Vergine che occupa tutto lo spazio disponibile, e col Figlio, di spalle, che stringe al suo seno in una posa che tornerà in opere più tarde di Michelangelo, quali il gruppo scultoreo della Madonna Medici della Sagrestia Nuova e il cosiddetto “Cartonetto”, disegno di Casa Buonarroti.
Sono ancora visibili i segni della delicatissima lavorazione eseguita da Michelangelo con scalpelli, calcagnuoli e con gradine a due e a tre punte di piccole dimensioni che hanno lasciato solchi di 1 mm circa, soprattutto in corrispondenza dei tre putti retrostanti, sulla sinistra, che mostrano inequivocabilmente l’intenzione e la capacità di creare i volumi e le profondità visive grazie all’incidenza della luce sui piani lavorati in modo differente. Nonostante la lastra misuri pochi centimetri di profondità (dai 2,5 ai 4 cm circa) le figure sono disposte su quattro piani che, gradualmente, culminano in quello del Bambino, fino ad individuare la piccola figura quasi impercettibile alle spalle della Vergine. Le superfici più levigate, perfettamente polite, assumono l’aspetto morbido negli incarnati della Madonna e del Bambino e quasi trasparente nella realistica resa dei panneggi.
fig.1 Lato posteriore. Segni di lavorazione fig.2 Foto a luce trasmessa (LT)
L’attuale modalità di fruizione dell’opera attraverso un box di plexiglass protettivo, con un sistema di ancoraggio della lastra alla parete, ha consentito di visionare il lato posteriore (fig.1) sbozzato con subbia verticalmente ed orizzontalmente e con scalpelli piatti di 2/3 mm in corrispondenza del bordo e di un’originaria scaglia del marmo, nonché di eseguire agevolmente una foto con luce trasmessa (LT). La suggestiva immagine (fig.2) mostra gli spessori della lastra restituendola in trasparenza nella sua struttura mineralogica. E’ interessante notare una venatura quasi impercettibile che, partendo dal collo del Bambino e assecondandone la curvatura naturale della spina dorsale, prosegue verticalmente sul panneggio della Madonna fino al sedile cubico e diminuisce gradatamente ad angolo retto verso il ginocchio sinistro. Tale venatura presenta inclusi più scuri in corrispondenza del palmo rilassato della mano destra del Bambino, quasi a formare un’ombra naturale.
Una seconda venatura, parallela alla precedente, è in corrispondenza della fine del panneggio del vestito della Vergine che morbidamente ne avvolge la caviglia sinistra.(nota delle restauratrici in collaborazione con la Soprintendenza)
La Battaglia dei centauri realizzata fra il 1491 e il 1492 circa, quando Michelangelo sempre giovanissimo (16 anni circa) continuava il suo apprendistato presso il giardino di San Marco confrontandosi con i suoi contemporanei e con le opere di epoca romana collezionate dai Medici. Molto probabilmente già apprezzato Michelangelo ebbe la il committenza dell’opera da Agnolo Poliziano che suggerì allo scultore di ispirarsi a un mito connesso alle fatiche di Ercole secondo cui l’eroe avrebbe liberato Deianira, sua promessa sposa, dalle nozze con il centauro Euritione, ucciso durante una zuffa furibonda con i centauri. Il blocco di marmo statuario a forma di parallelepipedo, presumibilmente di riuso, probabilmente è stato scolpito partendo da modelli eseguiti in creta e riprende i sarcofagi classici, come dimostrano i viluppi di figure avvinghiate nella lotta. Nella sua incompiutezza (probabilmente attribuibile alla morte del committente Poliziano l’8 aprile del 1492), l’opera racconta la perizia del giovane nella lavorazione del marmo a vari livelli di finitura: dal quasi tutto tondo delle figure più emergenti, al rilievo appena accennato di quelle sullo sfondo. La superficie reca ancora i segni lasciati dagli strumenti di lavorazione, come ad esempio la subbia, usata per la sbozzatura del bordo superiore, e della parte interna e laterale, la martellina utilizzata sui lati, le tracce di una subbia di dimensioni più piccole nella parte inferiore dell’opera, i segni dell’ugnetto e di scalpelli di dimensioni sempre più piccole con punte molto affilate si leggono invece su tutte le superfici dei corpi fino alle figure abbozzate sul piano di fondo, mentre alcune figure presentano parti della muscolatura perfettamente levigate e lisciate.
Il restauro ha permesso di studiare in maniera approfondita l’opera e di restituire una luminescenza andata persa per molti motivi. La patina giunta a noi non è comunque del tutto reversibile perché visti gli oltre 500 anni trascorsi il marmo statuario dell’opera ha incorporato per moltissimi motivi osmotici ed ha assunto un colore leggermente ambrato e fra l’altro bellissimo (il tempo, l’illuminazione, fumi di lampade a olio o di candele, ecc. che hanno creato una patina ormai irreversibile).
L’opera, seppur di minore importanza storico artistica rispetto all’altra esposta, “Madonna della Scala”, ha una grande contemporaneità comunicativa è comunque una gioia poter ammirare da vicino le due opere.
Biancalani Carlo